IL CARATTERACCIO di Vittorio Zucconi
ed Mondadori
“Cerco un
paese innocente” diceva Ungaretti nel 1918.
Fosse vivo
oggi, continuerebbe a cercarlo.
E probabilmente
in ogni parte del mondo questa ricerca rimarrebbe vana, ma bando alle ciance
parliamo di noi.
Parliamo
dell’Italia e del caratteraccio e del come (non) si diventa italiani.
Chi lo ha
già incontrato in qualche libro o nei suoi reportages americani, sa che
Vittorio Zucconi è un giuggerellone. Ama giocare con le parole e sa raccontare
storie straordinarie, drammatiche e frivole dall’altro mondo ma sempre con la
freschezza giovanile del nonno che non si prende sul serio fino in fondo.
Ed è con
questa filosofia che nel libro si cimenta con la storia contemporanea del
nostro Paese.
“Il
caratteraccio” prende infatti spunto da un ciclo di lezioni americane tenute in
una prestigiosa università del Vermont (i verdi monti battezzati dai francesi),
il Middlebury College.
Un modo come
un altro per ricordare (“celebrare
proprio no”) i 150 dell’unità d’Italia.
Zucconi
sceglie dieci eventi che caratterizzano questo periodo spaziando dalla presa di
Porta Pia alla prima guerra mondiale, dal fascismo al boom economico degli anni
’60, da tangentopoli a Berlusconi senza passare dal via ma sbirciando la TV di
Mike Bongiorno e i furgoncini Ape e la gioiosa macchina da guerra di
occhettiana memoria.
E in questo
andirivieni l’autore si interroga sul perché dopo aver fatto l’Italia sia stato
così faticoso fare gli italiani, ritenendo che l’homo italicus, sempre pronto a
denigrarsi con sadica passione abbia ormai assimilato la certezza di non
possedere un carattere nazionale ma un caratteraccio.
Senza
retorica e con punte di scanzonato affetto arricchito dalle sue personali
esperienze, l’autore racconta una storia che condanna (o asseconda) l’antismo
di un popolo.
E’ infatti
attraverso il prefisso “anti” che spesso, meglio di qualsiasi altra
spiegazione, si intende l’identità di un popolo unito dalle Alpi a Lampedusa
dall’essere essenzialmente contro qualcuno.
L’italiano è
soprattutto (come il Fernet Branca) un anticomunista, antiamericano,
anticlericale, antilaicista, antifascista, antimeridionale, antiberlusconiano.
E la chiosa
dell’incipit nazionale potrebbe essere evidenziata in “siamo contro, ergo
esistiamo”.
Del resto fin dalle prime cartografie quella
penisola un po’ storta e tesa fra est e ovest e fra nord e sud indicava una
terra di attrazioni opposte.
E poi
l’eterno conflitto Stato-Chiesa che nemmeno la bonomia di don Camillo e Peppone
è riuscita a sanare soccombendo a quella doppia lealtà italiana materializzata
dalla relazione ambigua fra Roma e il resto del Paese. Ambiguità che persiste
anche oggi quando votare a sinistra non comporta altra dannazione che quella di
perdere le elezioni.
Un popolo
insomma di santi e briganti ma sempre un po’ ipocriti, capaci di celebrare il
family day di giorno e tradire la famiglia di notte, un po’ cattolici, un po’
massoni, un po’ familisti, un po’ maiali, un po’ di sinistra, un po’ di destra,
un po’ giustizialisti, un po’ garantisti, un po’ rivoluzionari, un po’
conservatori, fieri inquisitori delle evasioni fiscali altrui, se si è nella
impossibilità di evadere.
Un Italia
dove l’informazione fra partigianeria ed evasività si aggrappa alla curiosa idea
che libertà di stampa significhi libertà di diffondere bugie di segno contrario
per ristabilire la verità, come un ortopedico che di fronte ad una caviglia
fratturata procedesse a spaccare anche l’altra per rimettere in equilibrio il
paziente.
Un Italia
dove la tragedia sconfina spesso nella farsa e dove la farsa finisce in
tragedia e dove quei morti del 6 dicembre
a Torino della Thisson Krupp di origini meridionali raccontano la storia di come in Italia si
debba morire per diventare italiani.
E poi la
liberazione dal sortilegio comunista del 1989 e la nascita, dopo due anni di
contorsioni e astrusità dottrinali che Zucconi risparmia agli studenti “per
evitare una denuncia per molestie aggravate e crudeltà mentale”, del partito
democratico della sinistra che conserva un souvenir malinconico del vecchio PCI
seppellito come gli zecchini d’oro di pinocchio in un circoletto nella terra
all’ombra di una grande quercia.
Anche se
sarebbero rimasti, perché nella politica italiana non si butta via niente come
del maiale, pezzi e spezzoni aggrappati alla parola comunista.
Insomma,
anni felici annunciati dopo il tramonto delle ideologie. E nessuno a rendersi
conto che dopo il tramonto non viene il giorno ma la sera.
La scoperta
di un capitalismo salvifico prima e poi la constatazione che esso è lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre il socialismo è esattamente il suo
contrario.
E poi lui,
l’uomo nuovo in quella sera del 26 gennaio 1994 che a 58 anni scese in campo,
alfiere del partito vetrina della nuova ideologia post ideologica. Non era un
partito che adoperava le TV per prendere il potere ma una TV a farsi partito
per vincere le elezioni.
Così dal
nulla, Colui Che Era Atteso si materializzò e l’Economist scrisse che “l’Italia
è il paese dove le cose che non accadono, accadono”.
La nuova
formazione politica per sottolineare lo slancio
risorgimental-nazional-calcistico si sarebbe chiamata Forza Italia.
Ovviamente
Berlusconi non vinse da solo. Aveva le
TV che forse non fanno vincere le elezioni ma di sicuro aiutano a non perderle
e un contributo decisivo lo fornì l’opposizione che se non ci fosse stata
l’avrebbe inventata lui.
Un libro
troppo critico, autolesionista, nichilista sul carattere degli italiani? No,
forse no, anzi di sicuro no, come ricordano le tesine degli studenti americani
che in fondo insegnano all’autore a credere ancora in questo caratteraccio
perché il viaggio per diventare italiani non è finito e anche se eterni
viandanti, “siete sempre migliori di quel che credete”.
pennino di
falco
Mamma mia se siete pesanti...
RispondiEliminaCaro "Pennino di falco", scusi la mia ignoranza ma dove vuole andare a parare? Al di là della recensione al libro di Vittorio Zucconi, intendo.
RispondiEliminaQual è la morale, il succo di questo suo intervento, di questa sua recensione. Scusa, sa, se non capisco ma sono un igonorante, non riesco a cogliere certi nessi impliciti, non sono in grado di leggere tra le righe, quindi debbo chiedere lumi, ragguagli per capire il senso più profondo del suo intervento. Di questa sua recensione che - nella sostanza - ci dice che 'somos todos caballeros' e che non ce niente da fare. E pure la sinistra, il PCI (sic, ancora lui, fantasma che s'aggira per la politica italiana), non sono riusciti a cambiare gli italiani.
Insomma, signor 'penino', erudisca noi poveri mortali affinchè possiamo comprendere il pieno significato dei suoi scritti.
Caro anonimo
RispondiEliminaDa tempo noi pellerossa abbiamo dismesso l’ascia di guerra.
Sono troppi i lunghi coltelli che già se ne occupano.
E dunque spiace deluderti PdF non ha vocazioni né ambizioni pedagogiche o redentrici: sotto il vestito nulla. Tra le righe c’è solo il bianco di un foglio di carta o elettronico.
Semmai la infinitesima ambizione di parlare di qualche libro a caso per incuriosire chi può o vuole farsi incuriosire.
Per quanto riguarda il tuo evocativo“penino” suggerisco, come direbbe il figlio di Bossi, di non frequentare gli “evirati” arabi.
Confidando di incontrarti per fumare insieme il calumet della pace, porgo il mio cordiale Augh!
Pennino di Falco