lunedì 6 febbraio 2012


                                     IL CARATTERACCIO di Vittorio Zucconi ed Mondadori

“Cerco un paese innocente” diceva Ungaretti nel 1918.
Fosse vivo oggi, continuerebbe a cercarlo.
E probabilmente in ogni parte del mondo questa ricerca rimarrebbe vana, ma bando alle ciance parliamo di noi.
Parliamo dell’Italia e del caratteraccio e del come (non) si diventa italiani.
Chi lo ha già incontrato in qualche libro o nei suoi reportages americani, sa che Vittorio Zucconi è un giuggerellone. Ama giocare con le parole e sa raccontare storie straordinarie, drammatiche e frivole dall’altro mondo ma sempre con la freschezza giovanile del nonno che non si prende sul serio fino in fondo.
Ed è con questa filosofia che nel libro si cimenta con la storia contemporanea del nostro Paese.
“Il caratteraccio” prende infatti spunto da un ciclo di lezioni americane tenute in una prestigiosa università del Vermont (i verdi monti battezzati dai francesi), il Middlebury College.
Un modo come un altro per ricordare  (“celebrare proprio no”) i 150 dell’unità d’Italia.
Zucconi sceglie dieci eventi che caratterizzano questo periodo spaziando dalla presa di Porta Pia alla prima guerra mondiale, dal fascismo al boom economico degli anni ’60, da tangentopoli a Berlusconi senza passare dal via ma sbirciando la TV di Mike Bongiorno e i furgoncini Ape e la gioiosa macchina da guerra di occhettiana memoria.
E in questo andirivieni l’autore si interroga sul perché dopo aver fatto l’Italia sia stato così faticoso fare gli italiani, ritenendo che l’homo italicus, sempre pronto a denigrarsi con sadica passione abbia ormai assimilato la certezza di non possedere un carattere nazionale ma un caratteraccio.
Senza retorica e con punte di scanzonato affetto arricchito dalle sue personali esperienze, l’autore racconta una storia che condanna (o asseconda) l’antismo di un popolo.
E’ infatti attraverso il prefisso “anti” che spesso, meglio di qualsiasi altra spiegazione, si intende l’identità di un popolo unito dalle Alpi a Lampedusa dall’essere essenzialmente contro qualcuno.
L’italiano è soprattutto (come il Fernet Branca) un anticomunista, antiamericano, anticlericale, antilaicista, antifascista, antimeridionale, antiberlusconiano.
E la chiosa dell’incipit nazionale potrebbe essere evidenziata in “siamo contro, ergo esistiamo”.
Del  resto fin dalle prime cartografie quella penisola un po’ storta e tesa fra est e ovest e fra nord e sud indicava una terra di attrazioni opposte.
E poi l’eterno conflitto Stato-Chiesa che nemmeno la bonomia di don Camillo e Peppone è riuscita a sanare soccombendo a quella doppia lealtà italiana materializzata dalla relazione ambigua fra Roma e il resto del Paese. Ambiguità che persiste anche oggi quando votare a sinistra non comporta altra dannazione che quella di perdere le elezioni.
Un popolo insomma di santi e briganti ma sempre un po’ ipocriti, capaci di celebrare il family day di giorno e tradire la famiglia di notte, un po’ cattolici, un po’ massoni, un po’ familisti, un po’ maiali, un po’ di sinistra, un po’ di destra, un po’ giustizialisti, un po’ garantisti, un po’ rivoluzionari, un po’ conservatori, fieri inquisitori delle evasioni fiscali altrui, se si è nella impossibilità di evadere.
Un Italia dove l’informazione fra partigianeria ed evasività si aggrappa alla curiosa idea che libertà di stampa significhi libertà di diffondere bugie di segno contrario per ristabilire la verità, come un ortopedico che di fronte ad una caviglia fratturata procedesse a spaccare anche l’altra per rimettere in equilibrio il paziente.
Un Italia dove la tragedia sconfina spesso nella farsa e dove la farsa finisce in tragedia e dove quei morti del 6 dicembre  a Torino della Thisson Krupp di origini meridionali  raccontano la storia di come in Italia si debba morire per diventare italiani.
E poi la liberazione dal sortilegio comunista del 1989 e la nascita, dopo due anni di contorsioni e astrusità dottrinali che Zucconi risparmia agli studenti “per evitare una denuncia per molestie aggravate e crudeltà mentale”, del partito democratico della sinistra che conserva un souvenir malinconico del vecchio PCI seppellito come gli zecchini d’oro di pinocchio in un circoletto nella terra all’ombra di una grande quercia.
Anche se sarebbero rimasti, perché nella politica italiana non si butta via niente come del maiale, pezzi e spezzoni aggrappati alla parola comunista.
Insomma, anni felici annunciati dopo il tramonto delle ideologie. E nessuno a rendersi conto che dopo il tramonto non viene il giorno ma la sera.
La scoperta di un capitalismo salvifico prima e poi la constatazione che esso è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre il socialismo è esattamente il suo contrario.
E poi lui, l’uomo nuovo in quella sera del 26 gennaio 1994 che a 58 anni scese in campo, alfiere del partito vetrina della nuova ideologia post ideologica. Non era un partito che adoperava le TV per prendere il potere ma una TV a farsi partito per vincere le elezioni.
Così dal nulla, Colui Che Era Atteso si materializzò e l’Economist scrisse che “l’Italia è il paese dove le cose che non accadono, accadono”.
La nuova formazione politica per sottolineare lo slancio risorgimental-nazional-calcistico si sarebbe chiamata Forza Italia.
Ovviamente Berlusconi non vinse da solo.  Aveva le TV che forse non fanno vincere le elezioni ma di sicuro aiutano a non perderle e un contributo decisivo lo fornì l’opposizione che se non ci fosse stata l’avrebbe inventata lui.
Un libro troppo critico, autolesionista, nichilista sul carattere degli italiani? No, forse no, anzi di sicuro no, come ricordano le tesine degli studenti americani che in fondo insegnano all’autore a credere ancora in questo caratteraccio perché il viaggio per diventare italiani non è finito e anche se eterni viandanti, “siete sempre migliori di quel che credete”.

                                                             pennino di falco

3 commenti:

  1. Mamma mia se siete pesanti...

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  2. Caro "Pennino di falco", scusi la mia ignoranza ma dove vuole andare a parare? Al di là della recensione al libro di Vittorio Zucconi, intendo.
    Qual è la morale, il succo di questo suo intervento, di questa sua recensione. Scusa, sa, se non capisco ma sono un igonorante, non riesco a cogliere certi nessi impliciti, non sono in grado di leggere tra le righe, quindi debbo chiedere lumi, ragguagli per capire il senso più profondo del suo intervento. Di questa sua recensione che - nella sostanza - ci dice che 'somos todos caballeros' e che non ce niente da fare. E pure la sinistra, il PCI (sic, ancora lui, fantasma che s'aggira per la politica italiana), non sono riusciti a cambiare gli italiani.
    Insomma, signor 'penino', erudisca noi poveri mortali affinchè possiamo comprendere il pieno significato dei suoi scritti.

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  3. Caro anonimo
    Da tempo noi pellerossa abbiamo dismesso l’ascia di guerra.
    Sono troppi i lunghi coltelli che già se ne occupano.
    E dunque spiace deluderti PdF non ha vocazioni né ambizioni pedagogiche o redentrici: sotto il vestito nulla. Tra le righe c’è solo il bianco di un foglio di carta o elettronico.
    Semmai la infinitesima ambizione di parlare di qualche libro a caso per incuriosire chi può o vuole farsi incuriosire.
    Per quanto riguarda il tuo evocativo“penino” suggerisco, come direbbe il figlio di Bossi, di non frequentare gli “evirati” arabi.
    Confidando di incontrarti per fumare insieme il calumet della pace, porgo il mio cordiale Augh!
    Pennino di Falco

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